Un po’ di tempo fa ho avuto una discussione piuttosto accesa con mia madre che sosteneva che io avessi una vita sociale scarsa – non nella quantità (mangio fuori un giorno sì ed un giorno sì e mi ritengo pieno di amici) quanto nella qualità.
Secca è stata la frase “sembra che tu ti infili nella vita degli altri nelle varie occasioni in cui è accettata la tua presenza”
Cioè in pratica, gli altri hanno una vita, la tua vita è fare comparsate nella vita degli altri.
A parte l’evidente scortesia nel farmi un tale discorso – che ho accusato con un risentimento che non ho mancato di farle notare, magari non nei modi migliori – non ho potuto fare a meno di notare che almeno in parte il discorso è vero.
Nel senso, i miei rapporti con molti amici sono ristretti ad ambiti molto particolari e con poche persone (con compagnie alla fine grandi), insomma quasi come se non avessi attività “comuni” ad altri della mia età.
Rifletto, rifletto rifletto ma poi mi accorgo di una cosa: sì, ma chi ha rapporti tanto differenti da ciò?
Penso alle attività medie dei miei amici “comparsanti”. È tutto un susseguirsi di piccole cose, di vedersi di qua, una festicciola di là, suonare di qui e poi gli amici con cui si vedono spesso sono pochissimi.
Insomma, non sono fondamentalmente diversi da me.
E quelli che sono diversi da me conducono una vita che ritengo seriamente poco sostenibile per l’uso di stupefacenti, di gestione della sessualità e in generale dei propri rapporti interpersonali. Meglio “asociale” (o meglio, per usare un termine politically correct, diversamente socializzante) che così, insomma.
Ripenso allora da chi viene la critica. Da mia madre.
Cosa la spinge a fare una osservazione così secca, così oggettivamente pesante sulla mia intera vita sociale?
Chiaramente, si tratta di evidenti differenze con la sua esperienza passata che la portano a pensare che io (mi viene da dire, che noi generazione) stia gestendo male i miei rapporti.
Cosa è cambiato?
È cambiato il concetto stesso di compagnia.
La compagnia come veniva concepita era fatta di decine di persone che si spostavano in blocco, senza manco aver bisogno di auto, di entrambi i sessi, con cui ci si vedeva su base quasi quotidiana. Gente proveniente da ogni parte della città, magari con gusti e caratteri completamente differenti. Un organismo dotato di vita propria in costante evoluzione, in cui i membri che la compongono cambiano di giorno in giorno.
È chiaro che nei giorni nostri la compagnia così concepita non ha senso, almeno posso esser certo che a Milano è qualcosa che veramente non sta né in cielo né in terra. La gente si trova sempre con i “soliti 4 str***i” (cit.), altro che decine di persone da mezza città.
Ma la stessa analisi in prima istanza aveva una grossa falla: ogni rapporto interpersonale, finché non si vive assieme, risulta praticamente fatto di comparsate nelle vite altrui. Chiaro che per una persona che considerava la compagnia parte della propria vita e lo stare assieme alle stesse persone, andare a vedersi quasi ogni giorno con gli amici a costo di attraversare la città cosa quotidiana la cosa sembra fantasmagorica.
Mi chiedo cosa abbia generato tale cambiamento.
Due sono i fattori, secondo me.
Il primo, fondamentale, è la netta espansione dei centri urbani che di certo non aiuta l’interazione tra le persone. Specie in periferia (mentre i miei genitori sono cresciuti in case in centro) dove bisogna andare da un paese all’altro questo è un limite quasi invalicabile fino al giorno della patente.
Il secondo è che non serve più vedersi per tenersi in contatto.
E ciò è triste.